Stato
E’ parola che ancora non è apparsa in questo nostro alfabeto, non percepita, quasi fosse svanita. Eppure sono settimane che ci appendiamo alle parole di chi questo Stato governa, di chi questo ‘spazio’ politico gestisce, di chi ci dice, in nome di una salute pubblica, che cosa dobbiamo fare.
E obbediamo, caspita se obbediamo: ma non credo in nome di un senso di Stato, ma per una incredibile capacità di reazione, che va oltre la paura personale, nel definire una nuova dimensione di collettività. Le parole che qui pronunciamo stanno delineando un nuovo concetto di comunità politica.
I confini fra Stato e Stato, lemmi maschili che definiscono altri lemmi maschili, sono saltati, di fronte ad un virus che ci rende pandemicamente uguali.
E’ lo stare che prende il sopravvento: lo stare nelle case così come nel dolore silentemente trattenuto. E’ lo stare nei luoghi che abitiamo, in cui il nostro sguardo, i nostri respiri, trovano una dimensione diversa di tempo, fra sospensione e iperconnettività, per immaginarci in forme diverse.
Queste nostre innumerevoli parole ci stanno accompagnando là, fra riscoperte dell’essenza del vivere (in cui il pane compare come cibo naturale), ad una creazione collettiva del ridefinire la politica.
Perché cultura è, in primis, il luogo femminile generatore della nuova polis.