Parola
Parola è parabola.
Dalla parabola, per non intaccare la sacralità del Verbum cristiano (che era Dio), in età medievale nasce il termine ‘parola’. Curiosa storia, questa: dalla tradizione della narrazione di un momento immaginario – ma appartenente al reale -, abbiamo usato la favola nel definire i codici che nominano la nostra vita. Parabole = parole.
Perché siamo dopotutto fatti di parole, nel nominarci (e quindi riconoscerci), nel corpo collettivo e nel nostro abitare, e nel nostro immaginarci.
Ora, sconquassati nel profondo – nello stato di apnea che viviamo – abbiamo bisogno di riprendere un respiro comune, e costruire nuove metafore: di nuove parole. Per andare oltre la normalità del Verbo novecentesco, che non sarà più tale, dobbiamo scavare nei nostri DNA del corpo della parola/parabola, e rilanciare nuove semantiche. Per poi riemergere con una cura generatrice di declinazione (un welfare culturale al femminile), per ricostruire parabole, per far emergere lemmi e codici che ci facciano re-immaginarci. Per creare nuove stelle, un nuovo desiderio (de-sidera, senza stelle – per ricomporle con magia), per orientarci in un nuovo mondo.