Catastrofe
Questi giorni si parla molto di guerra. L’obiettivo? Contenere la minaccia virale. Per tornare presto alla pace e alla normalità. Eppure, è ormai da tempo che non s’avverte né pace né normalità. Più che l’immagine della guerra, oggi torna forse utile la parola greca katastrophè. Intesa come avvento di una “fine”, di un “capovolgimento”.
Catastrofe come sentimento della “fine” incombente. La tragedia per le milioni di persone che perderanno la vita, i cari o il lavoro. L’ennesima crisi economica e l’aumento delle incertezze di ogni tipo. Il rischio degli autoritarismi. La catastrofe intesa come disastro.
C’è però anche un altro modo di pensare la catastrofe: come possibilità di “capovolgimento” della tragedia. Occasione storica per rifondare la società, da tempo ciecamente indaffarata su rotte insostenibili. Per riaffermare l’umana fragilità e solidarietà rispetto alla guerra del “tutti contro tutti”. Per rovesciare gli abbruttimenti del mondo del lavoro e di quello economico-finanziario. L’inaridimento del nostro stare insieme. Le mercificazioni dell’arte e del pensiero.
Insomma, sarebbe bello se si avesse il coraggio di parlare apertamente di catastrofe. Parlare del trauma, del non-senso. Delle paure, delle precarietà. Discutere però anche di come riscrivere i sentieri intrapresi in passato, per imboccare direzioni soggettive e collettive più feconde.
Due sguardi intrecciati: l’inferno di fronte a noi; una vita degna e buona da riscrivere insieme. Consapevoli che a realizzarsi totalmente non sarà mai né la distopia, né l’utopia. E’ nel mezzo che siamo chiamati ad esserci e a sperimentare. Oggi e domani più di prima.