Barbari
A me viene da pensare ai barbari. Quelli che aspettavamo nelle rime splendide di Costantino Kavafis. A quei barbari che pensavamo arrivassero, come a dare un senso. Ed invece è arrivato altro, inatteso, a sconvolgere il lessico, le pratiche, le abitudini , le certezze. Le parole hanno bisogno di maturare, di attraversare la mente, l’anima, plasmare pensieri, ripercorrere ricordi, aprire opportunità. Devono stare lì per un po’, acquattate, prima di prender forma, come vibrazioni di un suono, o appese alla punta di un polpastrello. Maggior responsabilità ha chi usa le parole oggi, in quella che viene definita l’era della “post-verità” nella quale tutto ciò che è falso è vero, e tutto ciò che è vero viene accuratamente rimosso, nascosto, come un ospite sgradito. O ignorato. Parole derelitte e marginali, suoni sordi o abitudinari, frenetico ticchettio su una tastiera consunta. Eppure le parole sono anche ricettacoli di memoria, visto che oggi sono il risultato dell’utilizzo frequente protratto nel tempo e nella storia, Quindi si portano dietro anche un pezzo di memoria. Si trasformano, riflettono memoria. E quando alzi gli occhi, sei travolto da un turbinìo di parole, che rievocano ideali antichi, prospettano futuri migliori, gravitano sospese nell’oggi, senza sapere come interpretarlo, scandagliarlo, per aprire la porta alla speranza. Eravamo arrivati a pensare che le parole fossero ormai obsolescenti, vuote, finite. E invece…