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Avvenire

È stato lo stesso Walter Benjamin a riprendere, e diffondere, una vecchia storiella chassidica: «Si racconta una storia sul mondo a venire, che dice: là tutto sarà proprio come è qui. Come ora la nostra stanza, così sarà nel mondo a venire; dove ora dorme il nostro bambino, là dormirà anche nell’altro mondo. E quello che indossiamo in questo mondo, lo porteremo addosso anche là. Tutto sarà com’è ora, solo un po’ diverso». In questi tempi bui di pandemia, guardiamo al futuro come una speranza, come un altrove che deve essere raggiunto. Sembra difficile, però, definire l’oggetto del nostro sguardo. Mentre ne parliamo crediamo di sapere quel che diciamo, ma se smettiamo di parlarne, per spiegarlo, non sappiamo più che cosa pensiamo: questo il paradossale luogo comune, formulato una volte per tutte da Agostino, insuperabile, da cui inesorabilmente scaturirà la questione dei prossimi tempi. Che tempi saranno?

Il tempo è il nostro vivere, e il futuro ne è la destinazione? Sembra che questo presente sia solo una parentesi, una dolorosa distrazione. François Jullien, pensando al tempo come inteso nella cultura cinese, tra Yin e Yang diceva: il presente è un “fra”, in un continuo divenire. Fra-intendimento di uno stato in attesa dell’altro. Avvertiamo, oggi più che mai, l’urgenza di un futuro, di un a-venire, di qualche cambiamento. Siamo impazienti. Ma, ammoniva Josif Brodskij: “nella sua totalità, l’avvenire è propaganda”. Ecco il nodo: l’avvenire sta a noi, non lasciamolo alla propaganda. E che sia, davvero, un po’ diverso da ora.

- Andrea Porcheddu