A.

Ancóra

Ancóra è la storia che dura.

Se penso alla durata dell’ancora, non la sento come una muta speranza. Quasi non mi sembra un avverbio. E’ un gesto.

E’ un’azione di perseveranza: saper ricominciare sempre un tempo fatto di momenti o di attesa, di pazienza o coraggio.

Ancora non è parola ingorda. Certo, ha sempre un po’ fame. Ma non vuole saziarsi, quasi non vuole ottenere.

Ancora confida in quel durare di racconto che sa tenere insieme quel che si rompe o si separa. Ancora è la cucitura che ripara un buco nella calza, ancora è non saper chiudere una chiamata. Ancora è metter via le scarpine dei primi giorni, i quaderni di scuola, perché possono servire ancora. Perché possono dire ancora. Ancora sono le prime cose e sono anche le ultime. Ancora è anche ora, da un tempo di prima ad ogni ora del presente. Ancora è anche un po’ di nuovo,  non ancora, altre volte. È un invito a ripetere, a durare, a continuare. È stupore, domanda, gratitudine.

Ancora è il coraggio, ma anche far durare lo sguardo verso il tempo che viene, l’avvenire, l’avventura, l’avvento.

Ancora è parola che si inoltra e ci inoltra.

Ancora è una delle prime parole che ha imparato, e che ancora ripete, mia nipote Anita quando le racconto una storia che le piace.

Ancora è anche la constatazione desolata del perdurare della paura. E’ sentire che tanta vita è circondata da un non ancora che prega perché intorno si costruisca un non più.

- Emanuela MancinoUniversità di Milano-Bicocca