Silenzio
Scrivo questa mia parola per l’alfabeto pandemico il giorno, infausto per l’umanità, in cui Luis Sepùlveda se n’è andato. Ho scelto la parola silenzio perché tra le tante che mi ronzano, come le prime mosche in questa mia primavera pandemica campestre, m’è sembrata quella più efficace. Silenzio come pratica da riscoprire in un mondo che ha parlato troppo forte. Silenzio per leggere le gemme che gli incisori di silenzio come Sepùlveda hanno lasciato. Il nostro cervello in fondo in silenzio non lo è mai, se ci pensate: immergendoti per esempio in Dostoevskij, Foster Wallace o Sepùlveda li senti rompere il silenzio, incidendo parole in spazi troppo intrisi di vuoto pneumatico.
Che ne sarà di noi? Minuti di silenzio per chi se n’è andato, per i nonni mai troppo ascoltati, per le generazioni strappate via così in fretta. Si osserva il minuto di silenzio: puoi vederlo, solcato dalle parole di Luis, dalla musica, dal teatro che è stato e… cosa sarà? A quest’ultima domanda che un attore come me, un artigiano dello spettacolo, si ripete spesso, rispondo col silenzio.
Ho scelto il silenzio sì: quello inciso da John Cage, quello goduto dai Depeche Mode. Il silenzio che mi fa pensare ai passi trascorsi, alle fortune avute, alle voci degli Altri che troppo mancano in questa pandemia.
“Nessuno si salva da solo” ha detto e ripetuto un uomo vestito di bianco. In un’omelia scandita dal Silenzio.
Silenzio, si (ri)parte.
Silenzio, parla la memoria.
Silenzio, chi è di scena?