P.

Pelle

La pelle degli altri è il marmo dell’ultima mostra che ho visto, ora cartolina; le dita di una che toccano il corpo dell’altra e ci si affondano. Il maestro italiano e il rivale danese, una giovane guida zelante che parteggia per il primo. Eravamo fuori orario, non troppo distanziati, e riuscivamo a bisbigliare schierandoci di qua o di là.

La pelle degli altri è quella lucida di una salma in mezzo a tre vivi. “Fate pure, lui non è pericoloso”. Un contatto che non è contagio, possibile? E allora riempire i vuoti tra le sue nocche, per cominciare, e poi salutare, abbandonare, rimanere soli.

Lose this skin I’m imprisoned in”, era una canzone probabilmente d’amore, ma ora la capisco meglio grazie al caso che la fa suonare e risuonare tra le chiamate dal mondo di fuori, spingendola giù fino al diaframma.

Magari la perdessi. Invece, un po’ tutti, ci imprigioniamo. Le mani si chiudono quasi a pugno e le dita stanno lì, alla base del palmo, e di lì non si muovono. Sono mani troppo lisce, usurate dalle troppe frizioni che ci infliggiamo spaventati; sono meno della pietra, sono modesti rifugi del tatto. Mani in mano: cioè niente.

La pelle nostra è senza luce e la porosità appartiene all’oblio. Il nuovo galateo, così efficiente nel presentarsi come manuale di sopravvivenza, ci separa perfino mani e viso, in una scomposizione che ci fa dimenticare di essere noi.

Chi ci riplasmerà? Noi, l’un l’altro, per forza. La solitudine, domani, ci scatenerà.

- Paolo Dalla Sega