Distanza
Cinquanta minuti, facciamo un ora, è il tempo di percorrenza accettabile per coprire le distanza casa-lavoro. Cinquanta minuti, facciamo cinquantacinque, il tempo che ci metto (quando mi impegno) per coprire dieci km di corsa. Diciassette minuti, facciamo venti, ogni giorno, in bici, è il tempo di percorrenza da Lambrate a Duomo. Quando vado in montagna, riesco a coprire quattrocento metri di dislivello in un’ora.
Mi piace, mi è sempre piaciuto, constatare che evochiamo il tempo per descrivere le distanze. Diciamo proprio così: con il tempo copriamo le distanze.
Coprire le distanze ha di protettivo. Con il tempo necessario a sperimentarle ci proteggiamo dalle distanze, e forse proteggiamo le distanze da noi stessi. Parlando di Dante, Jorge Luis Borges ipotizzava che tutto il complesso e lungo percorso per attraversare via via l’Inferno e quindi il Purgatorio e poi ancora il Paradiso fosse solo un modo sublime per coprire la distanza che lo separava dall’incontro con Beatrice.
Perché coprendo le distanze, le addomestichiamo, usando il tempo come principale alleato. Il “distanziamento sociale” ci ha allontanato non solo tra di noi, ma anche dalla distanza come misura della realtà. E tocca accettare che il tempo, tanto evocato per coprire le distanze, è ora più abbondante dei chilometri che riusciamo a percorrere. Ma non ci copre più, non ci protegge nemmeno da quel fottutissimo, dannato metro di distanza che vieta di arrivare alla concava sicurezza di un abbraccio.